In vista del SIT-IN previsto domenica 25 ottobre alle ore 10:30 davanti al carcere di Rossano, pubblichiamo in anteprima la recensione dell’ultimo libro di Cesare Battisti, dal titolo “Terra di grazia”, scritto nel carcere di Oristano e ancora inedito.
Quello della fuga è un tema molto frequentato dalla narrativa: il cinema e la letteratura vi attingono abbondantemente. Spesso, rappresenta l’artificio che innesca gli sviluppi tipici del genere avventuroso, prolifico di rocambolesche peripezie e di un susseguirsi spasmodico di azioni al cardiopalma…
Nell’eccitante finzione, si fugge per evitare un Male che minaccia; o per guadagnare un Bene risolutivo. Quasi sempre, in palio c’è la Vita, intesa come l’unica sopravvivenza possibile opposta all’incombente fatalità.
Nel caso del manoscritto di Battisti, definito una autofiction, la puntigliosa descrizione del tentativo di sfuggire alla tenaglia burocratica dell’arresto e dell’estradizione appare piuttosto come un inghiottitoio psicologico che trascina piano e indolente verso una partitura sempre più lenta i gesti, le riflessioni, le conversazioni. Ogni cosa pare aver dimenticato il movimento come sua essenza naturale e per venire alla luce deve prima di tutto scollarsi dalla mistura che impedisce il sorgere di qualsiasi iniziativa.
La fuga si trasforma quindi in qualcos’altro: dalle ‘regole del gioco, si passa al gioco delle regole’, e l’avvincente avventura di genere non decolla ma piuttosto atterra e sbiadisce nel grigiore del rimpiattino burocratico, dove la posta in gioco non è più nulla, dove il senso delle procedure rimanda a altre procedure e dove ciò di cui si tratta è solo uno spettro diafano.
Per effetto di questo anomalo viluppo, la Speranza non riesce mai a fare capolino né nella mente né nei gesti del protagonista, che risulta trascinato in modo passivo sia sul piano psicologico sia su quello fisico. I pensieri e le parole sembrano sempre fuori fuoco, perché il significato è sempre spostato altrove e nessuno pare mai riuscire a fare centro; come, parallelamente, il corpo sembra costantemente trasportato e sballottato simile a un sacco da un luogo all’altro, privo di una collocazione propria. Non è la Bolivia, non è il Brasile, né tantomeno l’Italia il posto dove un mucchio di ossa e sfinimento possa trovare finalmente ricetto.
Per tali motivi, la Libertà, che è il corollario logico prima che etico della fuga, resta un’istanza inesprimibile sullo sfondo persino di uno sforzo di autofinzione o di condizionamento letterario. La Libertà non si può dire, perché è un altrove ignoto, a tutti sconosciuto.
“L’uomo non è alcun potere all’interno di un potere” (Spinoza): queste parole sembrano risuonare costantemente nel corso della stesura del manoscritto, quasi a segnare il Limite di ogni discorso che voglia dire qualcosa sulle vicissitudini di chi è preso nella macchina della Giustizia. Esistono atti esecrabili, esiste la Colpa, esiste la Giustizia sotto forma di Istituzioni umane; ma tutto questo corrisponde alle avventure di cui sarebbe capace qualsiasi eroe epico o il bellimbusto di turno sfornato dall’industria cinematografica. Esiste, però, anche una terra di sogno, una ‘Terra di Grazia’, nella quale noi chiediamo perdono al nostro carceriere per non essere stati capaci di ‘lasciare ai suoi figli una Terra migliore’.
Giancarlo Punzi