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Il fisico Valentini tra relatività e AI alla conquista dello spazio

Sosteneva Gaston Bachelard che ogni verità nasce nonostante l’evidenza. Esplorare lo spazio e i corpi celesti è un po’: “astrarre, avere il potere dell’immaginare come i bambini”, dice il fisico Francesco Valentini, docente Unical e membro di diversi progetti dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA).
Ospite dell’ultima puntata del podcast Piazza Europa, il professore ha spiegato come: “quanto avvenuto con la cosiddetta particella di Dio teorizzata da Peter Higgs negli anni ’60, ma che i suoi colleghi del Cern di Ginevra catturarono nei loro esperimenti solo nel 2012, accadde anche per la teoria della relatività e i buchi neri di Albert Einstein. Solo nei primi anni duemila con la scoperta di M87, la teoria si concretizzò. La bravura di questi geni risiedeva proprio nella loro immaginazione. Hanno una capacità insita di immaginare una realtà completamente diversa da quella che noi viviamo ogni giorno. Se Einstein non avesse avuto questa dote non avrebbe mai potuto sviluppare la teoria della relatività e quindi spiegare in che modo la gravità influisca sul tempo. Queste discontinuità nella storia della scienza riscontrate sia nel percorso di Higgs, che in quello di Einstein sono dovute proprio a queste attitudini, all’essere visionari, alla capacità innata di vedere oltre la siepe. La ricerca è in fondo un po’ questo: uscire dal seminato del già conosciuto e indagare l’ignoto”.

headhorse nebula

Il fisico passa poi a commentare la recente scoperta fatta dalla rete di rivelatori composta dagli americani Ligo, dal giapponese Kagra e dall’europeo Virgo che ha captato il segnale di un’onda gravitazionale generata dalla fusione di una stella di neutroni con un misterioso oggetto dalla massa insolita, troppo piccolo per essere un buco nero e troppo grande per essere una stella di neutroni.L’evento, che sfida le attuali teorie, potrebbe dimostrare che sarebbe più alto del previsto il tasso di simili collisioni tra stelle di neutroni e buchi neri di piccola massa: “le onde gravitazionali sono una soluzione lineare della equazione di campo di Einstein. Previste nel 1915 in linea teorica, ma fino a quando non si è stati in grado di captarle dalla terra, ovviamente noi non avevamo alcuna prova sperimentale. Fu proprio Kip Thorne, fondando il progetto LIGO, a portare, in collaborazione con VIRGO, al primo rilevamento sperimentale delle onde gravitazionali nel 2016. L’astronomo statunitense è stato il consulente scientifico di Nolan per il film Interstellar, pellicola che consiglio di vedere perché porta sul grande schermo una pagina importante di scienza. Le onde gravitazionali si generano quando ci sono masse estremamente intense che cambiano la loro forma e le loro proprietà repentinamente del tempo. Ad esempio ciò si può verificare quando due buchi neri estremamente massicci iniziano ad interagire fra di loro e il più grande alla fine mangerà il più piccolo. Quando lo spazio-tempo viene deformato a causa di questo vorticoso danzare l’uno intorno all’altro di questi due buchi neri si producono queste onde gravitazionali che viaggiano nell’universo. Il detector Virgo e il detector Ligo sono due interferometri e ci permettono di captarle. Sono segnali bassissimi: bisogna eliminare qualsiasi tipo di disturbo per poterli captare. Ecco dove risiede il fascino tecnologico di questo tipo di esperimenti”.

Sulla relatività del tempo si è interrogata anche la Casa Bianca in merito alle prossime missioni sulla luna: se è vero che, rispetto alla terra, il tempo sul satellite è più veloce -1 secondo ogni 50 anni- allora occorrerà che la Nasa stabilisca un Utc, un tempo coordinato universale, una sorta di fuso orario che servirà da base alle declinazioni dei vari fusi orari sulla terra per le future esplorazioni. “Passando dalla terra alla luna le forze gravitazionali cambiano perché diverse sono le masse quindi i tempi scorrono in maniera diversa. Vicino alla terra il tempo scorre più lentamente che sulla luna, quindi noi dobbiamo stabilire una regola per definire il tempo sul satellite”.

E se la Nasa partirà nel 2025 riportando astronauti nell’orbita lunare, all’ESA, Agenzia spaziale europea, dove Valentini è stato scelto dal Direttore scientifico come membro del Solar System and Exploration Working Group (SSEWG), si ci occupa di progetti all’avanguardia. “L’ESA non prevede missioni con equipaggio, ma ci sono tanti astronauti della nostra Agenzia che partecipano alle missioni della Nasa che, oltre a ritornare con Artemis2 sulla luna, sta svolgendo una serie di missioni senza equipaggio. Come ESA parteciperemo a questo sforzo insieme alle altre agenzie spaziali, anche se facciamo grande lavoro sulle missioni che chiamiamo robotiche, ovvero delle missioni esplorative che mandano in orbita delle sonde che poi portano degli strumenti con cui noi poi misuriamo, fotografiamo, caratterizziamo lo spazio che incontriamo quando ci muoviamo in esso.
Il fisico ha poi realizzato insieme ai colleghi del vecchio continente il progetto ASAP Automatics in space Exploration, con l’intento di introdurre l’Intelligenza Artificiale nelle missioni spaziali per sviluppare le tecnologie e le strumentazioni scientifiche delle missioni spaziali e di esplorazione. “L’idea si basa su ciò che dicevo prima: l’ESA invia in orbita tante sonde e queste andranno sempre più lontano. Ci spingeremo su Marte, addirittura siamo arrivati ai confini dell’eliosfera con le sonde Voyager. Quando ci si allontana così dalla terra, ovviamente le comunicazioni diventano sempre più difficoltose perché la velocità della luce è molto elevata e le distanze siderali. L’idea di utilizzare l’AI è proprio quella di rendere il satellite il più possibile indipendente dalla terra. Se il satellite si trovasse in una situazione particolare e fosse costretto a operare una manovra di emergenza, deve essere in grado di stabilire come farla, quando farla in totale autonomia. Un altro aspetto importante è quello di utilizzare gli strumenti quando servono: se il satellite attraversa quella che noi chiamiamo una regione di interesse scientifico nello spazio, deve essere capace di decidere che quella è una situazione di interesse e deve mettere gli strumenti a disposizione in modalità di risoluzione massima, lo deve fare in maniera indipendente. Altrimenti per noi sarebbe impossibile manovrarlo dalla terra, dovremmo stare lì a guardare i dati in tempo reale. Stiamo dunque cercando di implementare tutte queste tecniche creando dei software di bordo che possano essere montati negli hardware di bordo e questa è la via: i prossimi satelliti saranno tutti concepiti così”.

sdm

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