UNIVERSITÀ Zoom

Lettera al ministro Manfredi per la riapertura delle Università

“La Dad, il Covid, l’habeas mentem e il ruolo delle Università (al plurale)” è il titolo della lettera rivolta al professor Gaetano Manfredi, ministro dell’Università e della ricerca scientifica, e per conoscenza ai componenti della CRUI, da un gruppo di docenti, ricercatrici/ori, studentesse/i e altre/i lavoratrici/ori di diversi Atenei italiani sul problema della riapertura delle Università.

Il DPCM del 4 marzo 2020 ha disposto la chiusura delle Università su tutto il territorio nazionale. Dapprima prevista fino al 18 marzo, la chiusura si è protratta senza soluzione di continuità fino ad oggi. Si riapre la mobilità fra regioni. Sono state assunte misure per la progressiva riapertura di fabbriche, uffici, esercizi commerciali, enti pubblici, e anche dei luoghi di ritrovo e di socializzazione, ma nessuna misura relativa alla riapertura delle Università. Quest’ultima non sembra un evento all’ordine del giorno. Pare che gli studenti si possano incontrare fra loro e con i docenti senza rischi in birreria o in pizzeria, tra poco anche nei cinema e nei teatri, ma non nelle aule universitarie. Si sono studiati (fortunatamente) protocolli per far svolgere in sicurezza gli esami di maturità in presenza a giugno, ma non gli esami universitari delle sessioni estive. Si preferisce studiare protocolli e investire su tecnologie per fare quegli esami a distanza, invece che per farli in presenza, casomai all’aperto.

Mentre si discute della riapertura parziale degli stadi a fine giugno per le partite di calcio, le Università si stanno attrezzando per svolgere anche nel prossimo anno accademico l’insegnamento a distanza per gran parte dei loro studenti, per evitare che la presenza in aula incrementi la diffusione del contagio. Temiamo che quando si dice che “conviene” proseguire l’insegnamento in modo prevalentemente telematico fino a gennaio 2021, si pensi che l’educazione superiore italiana conti meno delle vacanze in spiaggia, dell’aperitivo al bar, del giro al centro commerciale o che le Università non siano in grado di elaborare strategie per consentire una vera esperienza educativa, contenendo i rischi di contagio, e che siano meno capaci di farlo rispetto ai ristoratori o ai gestori turistici (che per elaborare le soluzioni casomai si rivolgono a ricercatori universitari).
Temiamo che dietro questo atteggiamento ci sia piuttosto una concezione della funzione dell’educazione intellettuale superiore che riteniamo inaccettabile. Ci sembra infatti inspiegabile che l’amministrazione pubblica, la quale dispone delle più ampie, profonde e diversificate competenze scientifiche e professionali, non si consideri in grado di elaborare un piano di rientro sicuro ed efficiente per le Università e praticamente solo per le Università, che di quel sapere sono la matrice e la culla. Ci sembra impossibile che si ritenga di non aver le forze per raggiungere l’obbiettivo di una didattica (ma anche di un’attività di ricerca) svolta “in presenza”. L’unica spiegazione che riusciamo a darci è che si stia diffondendo l’idea che l’obiettivo non valga lo sforzo. Invece, a nostro parere, l’obiettivo merita il più grande degli sforzi, e siamo sicuri che le Università italiane hanno tutti i requisiti per vincere la battaglia.

L’idea che la presenza fisica degli studenti nelle Università sia tranquillamente sostituibile con i corsi telematici, con la Dad, è sbagliata. Perché – paradossalmente -, al di là del manto tecnologico, è un’idea molto arretrata. Riflette una visione della didattica universitaria vecchia di oltre sessant’anni, ci riporta a un modello di apprendimento incentrato sul “trasferimento di conoscenze” per mezzo di lezioni cattedratiche, con scarso dialogo (per questo definite burocraticamente “frontali”), a cui si accompagna lo studio solitario, spesso consistente in una memorizzazione dei cosiddetti manuali, assunti dogmaticamente come fonte del sapere. A questo tipo di didattica fanno da naturale completamento esami incentrati sulla verifica della memorizzazione delle nozioni. Il sistema si adattava a una popolazione studentesca che viveva soprattutto in famiglia: trasferirsi a vivere insieme ad altri studenti vicino all’Università era troppo costoso, e anche non molto utile, visto che alla fine quel che contava era superare gli esami, avendo imparato il contenuto di uno o più grossi libri, o delle “sbobinature” delle lezioni.
La didattica telematica rischia di non essere altro che un vestito tecnologico per questo modello vecchio.

Dalle sue origini medioevali ai modelli anglosassoni (i campus), l’Università ha invece l’aspirazione di essere prima di tutto un luogo fisico organizzato per offrire a docenti, ricercatori e studenti una esperienza intellettuale fortemente formativa, intesa a stimolare e far interagire le loro intelligenze. Questo luogo è, se possibile, tanto più necessario oggi, quando proprio la rivoluzione dei processi e dei mezzi di comunicazione (il web) ha reso quasi ridicola la funzione di fonte prioritaria di conoscenze “da trasferire”. Le nozioni sono ormai reperibili in pochi secondi in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento: qualsiasi studente può assistere a lezioni e conferenze su qualsiasi argomento di premi Nobel e massimi esperti mondiali del tema. Quello che le Università possono e devono fornire è la capacità di porre/si le domande sulle conoscenze trasferite e organizzare in modo cumulativamente produttivo le risposte. La loro ragion d’essere, in un mondo in cui le “informazioni” si trovano sul web, è quello di educare al senso critico e a selezionare le informazioni che servono per risolvere specifici problemi, e soprattutto a porne di nuovi. Devono provare l’impresa titanica di garantire, nell’epoca della rete, l’habeas mentem dei ragazzi che le frequentano. E questo è un compito che si può assolvere solo attraverso l’esperienza della vita universitaria: il senso critico e la creatività nell’uso del sapere si possono insegnare e apprendere, ma non meccanicamente “trasferire”. Il compito delle Università è, a nostro parere, insegnare “a”, insegnare “come”, non insegnare nozioni.
Questo vale anche, ed anzi forse a maggior ragione, proprio per le facoltà destinate a formare alle scienze ed alla tecnologia: la centralità e inevitabilità del lavoro di gruppo, e dunque dell’educare la speciale capacità di condividere le conoscenze al fine di risolvere e porre problemi che sfuggono al dominio individuale, presuppone che i laboratori, in cui la didattica nasce o comunque si sviluppa con la ricerca, siano “popolati” di persone. Proprio quando la tecnologia è oggetto dell’insegnamento, finisce con il rivelarsi del tutto inadeguata come esclusivo mezzo di esso.

La didattica online è accettabile e, anzi benvenuta, per un breve periodo di emergenza, ma l’insegnamento è un’altra cosa. Quella che è in discussione è l’esistenza delle Università, al plurale, in alternativa alla Università (al singolare) della didattica a distanza foss’anche fatta dai Nobel, in cui tutti gli altri attuali docenti verificano che gli studenti abbiano “acquisito” le conoscenze (tra quanto nascerà l’Amazon University così organizzata?). Se le Università, al plurale, hanno una ragion d’essere, questa sta nella loro capacità di offrire una varietà di esperienze educative che si sviluppano in, e non possono fare a meno di, una dimensione di vita comunitaria non riducibile a incontri virtuali.
Il trasferimento on-line della didattica universitaria comporta, per altro, una riorganizzazione delle mansioni e dei tempi di lavoro che si sovrappone agli oneri di cura e di organizzazione domestica. Per quelle lavoratrici e lavoratori che hanno a carico bambini, anziani o soggetti vulnerabili, il lavoro da casa, non per scelta bensì imposto, si traduce dunque in una discriminazione che va a pesare su un’università già profondamente segnata dal differenziale di genere.
La rete offre una quantità di opportunità, che vanno tutte sfruttate, ma non ci consente affatto di imparare, nella misura in cui il senso critico è il perno di questa nozione, stando a casa. Anzi, impone più vita universitaria comune, perché per gestire in modo critico le informazioni che essa veicola serve una crescita esponenziale del senso critico e della creatività dei suoi utenti. Nell’era di internet le Università, se vogliono tutelare il loro habeas mentem, dovrebbero costruire più residenze per studenti, dovrebbero essere campus dalla dimensione umana, favorire le coabitazioni e aprire anche la sera e durante le vacanze, perché la critica e il confronto sono tanto più necessari quanto più siamo inondati di informazioni incontrollate. Su queste cose e non sulla didattica a distanza andrebbero concentrati gli investimenti.
A partire da queste considerazioni riteniamo che ripiegare sulla didattica a distanza per altri sei mesi sia una sconfitta che implica la rinuncia alla ragion d’essere dell’Università e apre la strada alla messa in discussione delle Università (al plurale).

Primi firmatari
Costanza Margiotta (Univ. Padova), Enrica Rigo (Roma 3), Alberto di Martino (Sant’Anna Pisa), Emilio Santoro (Univ. Firenze), Elisabetta Grande (Univ. Piemonte Orientale), Isabel Fanlo Cortes (Univ. Genova), Anna Cavaliere (Univ. Salerno), Silvia Borrelli (Univ. Ferrara), Silvia Vida (Univ. di Bologna),
Ugo Mattei (Univ. Torino), Filippo Ruschi (Univ. Firenze), Franco Prina (Univ. Torino), Piero Graglia (Univ. Milano), Luigi Pannarale (Univ. Bari), Giuseppe Campesi (Univ Bari), Francesco Morelli (Univ. Ferrara), Stefano Simonetta (Univ. Milano), Giovanni Torrente (Univ. Torino), Roberto Villa (Univ. Milano),
Rosaria Priosa (Univ. Firenze), Sofia Ciuffoletti (Univ. Firenze), Federico Oliveri (Univ. Pisa), Giuseppe Caputo (Univ. Firenze), Carlo Botrugno (Univ. Milano),
Salomé Archain (Univ. Firenze), Chiara Stoppioni (Univ. Firenze), Elisa Gonnelli (Univ. Firenze) Gianmarco Gori (Univ. Firenze), Davide Petriollo (Univ. Firenze, Univ. di Strasburgo), Katia Poneti (Univ. Firenze)

Ulteriori adesioni possono essere inviate all’indirizzo Isa.Fanlo@unige.it

FaC

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