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Narrazioni tossiche fra reale e virtuale. Intervista all’attivista Valeria Fonte

Valeria Fonte è un’attivista e militante di strada, molto conosciuta sui social. Laureata in Lettere e in Italianistica a Bologna, si occupa di divulgazione e retoriche misogine da tre anni. Di recente ha pubblicato il suo primo libro “Ne uccide più la lingua”, editore De Agostini. Un libro guida che dà un nome alle cose, smontando tutti i discorsi misogini quotidiani, sui giornali, in televisione, in politica. Un libro che attraverso la retorica sfida la lingua misogina che lavora indisturbata e a volte uccide.

Nel tuo libro scrivi: “Alle parole si affibbia un valore minore, trascurabile. Per questo motivo abbiamo cominciato a normalizzare quelle misogine, violente e discriminatorie”. Che cosa si può fare per invertire questo processo?
“È un problema della nostra cultura. La cultura è letteralmente come un vaccino che spiega a tutte e tutti perché alcune cose non devono essere fatte. La soluzione c’è ma l’abbiamo sempre ignorata. Bisogna istituire una sorta di educazione sessuale, linguistica e affettiva nelle scuole che parte già da bambini. Il problema culturale lo puoi risolvere solo partendo dai bambini. Il mio libro fondamentalmente si prefigge di dare un nome alle cose nel bene e nel male”.

Nel tuo lavoro di divulgazione, ti sei ritrovata -molto spesso- con l’account bloccato o in shadowban: l’attivismo sui social, nonostante queste limitazioni, funziona?
“La questione dell’attivismo online è molto complessa. Noi online riusciamo a fare un gran lavoro di divulgazione, riusciamo a creare tantissimi contenuti che arrivano immediatamente alle persone, ma manca lo step successivo. Manca il rendere reale una forza vitale ­– anche rabbiosa- che è potentissima online ma non riesce ad arrivare nelle piazze”.

Perché parli di piazze?
“Parlo di piazza perché c’è spesso questa accusa di abilismo nel dire che in piazza ci va solo chi può, e chi non può viene escluso. Il punto è, che non dovremmo ragionare su chi non può venire in piazza, ma sul come rendere le piazze un luogo accessibile a chiunque. Tutta quella rabbia, tutta quella divulgazione online se non si realizza nel concreto- come sta succedendo in questi giorni in Francia- non riesce a fermare il mondo. Abbiamo la convinzione che con la divulgazione online si può cambiare il mondo, ma lo spazio virtuale non è la realtà. C’è bisogno dei corpi negli edifici, nelle strade e nelle piazze per far succedere il casino, creando disagio e indignazione”.

Tu crei spesso indignazione utilizzando il corpo. In che modo il corpo diventa l’elemento principale delle battaglie femministe?
“Io credo che non esista battaglia che non passi attraverso i corpi. Il corpo è il luogo per eccellenza della decisione altrui su di noi. Anche quando parliamo di linguaggio misogino-ad esempio- c’è di mezzo il corpo. Le parole descrivono le cose e le cose sono cose reali, come i corpi. Il linguaggio è solo il riflesso di come raccontiamo i corpi.  Se un corpo si riappropria di se stesso e agisce in maniera autonoma, spaventa. Lo scopo è quello di utilizzare il corpo nella maniera meno riconosciuta socialmente, creando un disagio”.

Il femminismo per gli uomini è ancora un tabù. Tu pensi che gli uomini debbano essere coinvolti nelle lotte femministe?
“Io non voglio avere un confronto con gli uomini, non voglio insegnare loro come comportarsi. Un uomo deve pensare a quante volte ha rischiato la vita in questo sistema. Quante volte un uomo ha limitato se stesso e le proprie sensazioni in mezzo ad altri uomini? Se un uomo, in mezzo ad un coro sessista, si ribella automaticamente il branco lo elimina. Se c’è un modo per parlare con gli uomini è quello di chiedere loro come stanno di merda in questo sistema. Hanno tantissimi privilegi, questo lo sappiamo bene, ma rischiano anche loro”.

Femminismo e questione meridionale, a che punto siamo?
“Tutti gli eventi importanti vengono organizzati da Roma in su, ma il sud è pieno di attivisti e di collettivi. Manca quella spinta a scendere in piazza perché spesso tutte le persone giovani -per questioni di sopravvivenza- sono costrette ad andare via. Io conosco un sacco di attiviste che provengo da piccole realtà del sud. Il femminismo al sud è centrale e deve essere legato alla questione meridionale. Quando parliamo di discriminazione e minoranze non possiamo non parlare del sud. Quando ti fanno notare il tuo accento con aria quasi di sfida, c’è sempre quel velo sottile di discriminazione che fa capire che la questione nord-sud non è ancora superata”.

Domenica Zito

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