CULTURA Giovani Lavoro Libri Migranti

Restare per cambiare e non per adattarsi, ecco la lezione di Vito Teti

“Vedo la tragedia ma vedo anche la speranza”, è forse qui che si può collocare il significato di “Restanza”, parola che fa da titolo al libro dell’antropologo, scrittore e professore Vito Teti, e presentato alla sede del Dam dell’Unical da Entropia APS, Filorosso e Arci.

Questo libro nasce durante il periodo pandemico, che ha avuto un impatto fondamentale nella visione del mondo dell’autore: “mi sembrava che fosse tutto cambiato, i colori intorno a me sembravano diversi, più accesi, – racconta il professore – o forse ero io che guardavo le cose con una percezione diversa”.

“Il motivo conduttore dei miei libri è che quando parti non puoi tornare mai al punto di partenza”, dichiara l’antropologo, che ha vissuto lo spopolamento del paese in cui è nato, e nel quale vive, sentendosi quasi come un superstite. Il significato della restanza può anche stare nel difficile rapporto di amore e di rabbia legato al proprio paese d’origine. “Non è l’invito a rassegnarsi ad un destino e non è mai una rinuncia, restare è interrogarsi su stesso e sul proprio mondo” sostiene Fulvio Librandi, allievo di Vito Teti, durante il suo intervento.

Restanza è anche nostalgia, e non solo da parte di chi deve affrontare il viaggio per andarsene, ma soprattutto da parte di chi decide di rimanere e prova il sentimento dell’abbandono. Citando Pasolini, Vito Teti si dichiara nostalgico di “una città del pane” in cui tutti i beni sono necessari, “perché laddove i beni sono superflui è superflua la vita stessa”. E sta proprio a chi resta cercare di costruire e rendere resistenti i piccoli luoghi che ci sono rimasti.

Ma come fare a rimanere? “Se restiamo dobbiamo avere una serietà di sguardo e di postura”, sostiene fermamente la scrittrice Sonia Serazzi, che nel suo intervento si dichiara “quella che resta scrivendo”. Lei stessa ha imparato, dai libri del professore, l’importanza dello sguardo rivolto a ciò che abbiamo intorno. Questo dovrebbe consentirci di “individuare i frutti buoni, custodirli, proteggerli e curarli” per poi prendercene cura.

Non si può negare che la restanza sia “un sentimento molto simile all’inquietudine”, come afferma Daniela Ielasi, giornalista e presidente di Entropia, che come pochi può fortemente testimoniare di essere fra “i rimasti”. Non è da tutti rimanere, perché può esserci tanto sentimento nel provare a non andare via, ma non basta, “sono necessarie le politiche, che devono essere serie per poter permettere alle persone, ai giovani, di rimanere nei posti del cuore”.

La difficoltà del restare, però, non è motivo per abbattersi. “La parola restanza è come un contenitore, non racchiude in sé solamente pensieri negativi, ma anche il sentimento della speranza”, sostiene il professore Domenico Cersosimo. Quello del rimanere è anche uno stare consapevole, trasformativo, non solamente adattivo, “non è occuparsi del passato, ma occuparsi del futuro”.

A rendere questi concetti concreti sono state le testimonianze delle persone fra il pubblico durante la presentazione. Famiglie, professionisti o studenti che sono stati costretti ad andare via in cerca di un futuro non per forza migliore, ma magari più sereno. Sono piene di emozioni le loro parole, colme di amarezza per essersi dovuti allontanare da casa, dalla tranquillità dei propri familiari.

Alcuni di loro sono tornati, non è stato facile, non lo è mai, e la ripresa è difficile, per alcuni sembrava impossibile. Eppure quasi sempre un futuro lontano dalle persone e dai posti che ami, per quanto più semplice possa essere, forse non è un futuro che vale la pena di essere vissuto.

Francesca Lanzo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Social media & sharing icons powered by UltimatelySocial