Quando finalmente appare in silhouette dopo una lunga noise-intro della chitarra elettrica di Massimo Garritano, Ernesto Orrico ha la voce spezzata dall’emozione. Il palco e il pubblico del Teatro dell’Acquario giocano brutti scherzi a noi altri surfisti della scena anni ’90. Lo ripeterà più volte durante la serata, ringraziando più e più volte, dialogando, intrattenendosi in una dimensione quasi intima con quel pubblico, un centinaio di amici, conoscenti e addetti ai lavori, che non hanno voluto mancare a questa prima tanto attesa.
“Materia sonora non conforme” che comincia dai “vicoli del nostro essere o non essere” lì “dove le storie galleggiano” e poi si dissolvono. Questo è “Talknoise”, il nuovo disco/show/performance che rinnova la delicata e proficua alchimia già sperimentata da Garritano e Orrico in occasione del progetto teatrale “La mia idea. Memoria di Joe Zangara” (debutto nella primavera 2016, con due puntatine a New York nella primavera e nell’autunno 2017), e che qui dà vita a sprazzi di una disturbante e voluttuosa potenza sonora. Una manciata di tracce affilate (disponibili anche sulle più gettonate app e piattaforme on-line o nel Cd in vendita per Manitù Records), in cui lo stile “spoken word”, cui Orrico già ci aveva abituati nei precedenti lavori “La superficie della lotta” (dalla messa in scena del quale l’attore cosentino recupera qui un mantello scarlatto e una spettacolare tiara di piume rosse, realizzate all’epoca da Rita Zangari) e “The Cult of Fluxus” (uno dei brani del quale viene qui sapientemente rielaborato con rinnovata efficacia) raggiunge un’invidiabile maturità espressiva che si manifesta in una passionale e commossa “geografia dell’anima dell’artista”, unico antidoto alla schizofrenica bulimia emozionale di questi tempi inquieti e vagamente disperati.
“Amatemi, coccolatemi, dondolatemi” – invoca con un filo di voce Orrico dopo aver “strappato” un frammento del variopinto totem pop-cubista (realizzato da Gianluca Salamone e Merusca Staropoli su concept di Raffaele Cimino) che campeggia sul fondo della scena, evocativa in maniera essenziale, e ch’è un patchwork di facce occhi e bocche spalancate, che Orrico utilizza dapprima per farsene una grottesca maschera bidimensionale, poi trasforma con gesti misurati e ipnotici nella sagoma di un neonato da cullare e infine, in ginocchio sul proscenio, usa come una lavagna su cui vergare con pochi rapidi gesti le sei lettere della parola “human”. Urla, sussurra, si dimena, battendosi il cuore e soffiando come un metronomo, le note della chitarra di Garritano, distorte in un crogiuolo di pedali ed effetti, scolpiscono un paesaggio sonoro che si amalgama con la voce di Orrico, e con gli stati d’animo che questa ci fa attraversare, con sorprendente naturalezza.
“Certe volte mi sento perso in un cinema mentale” – quasi confessa in un momento di pausa apparente il performer, per poi ripartire con l’energia compressa di PPP, corrosiva e violenta invettiva dedicata al coraggio e all’indimenticata, ma forse mai abbastanza compresa lezione di Pier Paolo Pasolini. Le citazioni si rincorrono, precise, taglienti, anche esotiche a volte. Dziga Vertov, l’uomo con la macchina da presa. Mejerchold (?) il regista con la pistola. L’occhio tagliato, del primo Buñuel surrealista. Ma c’è spazio anche per i più prosaici parassiti che brulicano sulla superficie di questa terra devastata, “i ratti della truffa che seppelliscono la bellezza dentro i capannoni”, per i bambini di Riace e le ragazze sui barconi, in quest’ “acqua dove i corpi si gonfiano, la pelle si sfalda” e noi invece continuiamo a galleggiare, (r)esistendo nel rumore della comunicazione.
Poi “la fine arriva” di ogni umana cosa “e non c’è niente da capire”.
Manolo Muoio
foto Tommaso Caruso
(Visto al Teatro dell’Acquario di Cosenza, domenica 28 ottobre 2018)