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Alla scoperta della jam session, aspettando di tornare sul palco del DAM

“La vita è un po’ come il jazz, viene meglio quando si improvvisa” scriveva il famoso compositore George Jacob Gershwin. La nostalgia degli spettacoli dal vivo porta spesso a chiedersi quando si potrà tornare a godere nuovamente di certe emozioni, e gli studenti dell’Unical pensano alle jam session del Filorosso, organizzate ogni giovedì al DAM (Dipartimento Autogestito Multimediale).

Mentre si cercano le parole giuste per descrivere cos’è una jam session non si può non pensare alle grandi perdite che il settore musicale ha subito in questi mesi: gli artisti hanno dovuto “improvvisare”, cercare nuovi modi per comunicare, per suonare, quasi reinventarsi. In un certo senso la jam session che ha origini jazz è proprio questo: riuscire a sentirsi, a connettersi improvvisando. Nella sua “forma originale” non c’è nulla di stabilito: è rischio, non ci sono spartiti, testi da seguire, è unione, scambio, quasi altruismo, ma anche sana competizione. Ma la jam session può essere anche la riproduzione di cover di brani già esistenti, in questa forma lo spettacolo coinvolge maggiormente il pubblico che riconoscendo i brani riesce a partecipare. 

La parola “Jam” deriva probabilmente da “Jamu” in lingua Youruba (Africa occidentale) che significa “insieme in concerto”, secondo altri pare provenga invece dall’inglese: jam = marmellata o meglio “: congestione, accumulo, disturbo”. L’espressione per estesa “Jam session” la si fa risalire agli anni 20 quando in America i musicisti iniziarono a riunirsi e a sperimentare con il diffondersi della musica jazz. Si racconta che nel momento in cui il talentuoso cantante, attore e comico statunitense Bing Crosby si esibì, i musicisti esclamarono: “hey is Jammin ‘the beat’”, perché batteva le mani sul primo e sul terzo tempo e fu proprio in quell’istante che l’espressione prese vita. 

In molti club come il New York Minton’s Playhouse dopo l’orario di chiusura si continuava a suonare: Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Ben Wesper sono solo alcuni dei nomi dei musicisti che amavano incontrarsi e “contaminarsi” a vicenda. Le jam sessions continuarono a diffondersi influenzando la musica rock e anche quella afro-cubana nacque infatti la “descarga”. Memorabili sono: la “Million Dollar Quartet” di  Elvis Presley, Jerry Lee Lewis, Carl Perkins e Johnny Cash, le improvvisazioni sul palco dei Pink Floyd, Cream , The Jimi Hendrix ExperienceDeep Purplethe Grateful Dead , AC / DCLed ZeppelinSantanaLynyrd Skynyrd e l’ultima versione dell’album “Layla” di Eric Clapton che include una serie di registrazioni in jam session fra l’artista, i membri della sua band e altri musicisti. 

Le jam session sono spesso intense, coinvolgenti, incisive, in grado di creare legami e congiunzioni. Ognuno con il proprio stile musicale e anche con la lingua che preferisve: a volte alle jam del DAM gli studenti internazionali si esibivano utilizzando strumenti tradizionali del loro Paese d’origine. Più di tutto manca forse la possibilità di incontrarsi, di migliorarsi, di mettersi in gioco, di empatizzare con e attraverso la musica, di socializzare. Tuttora ci si scambia vocali via whatsapp con improvvisazioni musicali, ci si confronta, si ricordano le serate in cui il pubblico era letteralmente in visibilio e si aspetta il momento in cui si tornerà su quel palco che in seguito alle nuove direttive e alla bella stagione siamo sicuri arriverà molto presto.  

Federica Sarro

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