L’ultimo libro di Vito Teti, antropologo ed ex docente UNICAL, è considerato un saggio. In realtà è molto di più. Il Risveglio del Drago (Donzelli, 2024) è (anche) un memoir che diventa (inevitabilmente) un romanzo (senza traccia alcuna di finzione) e racchiude, anche, una profonda riflessione sull’antropologia dei paesi e dell’abbandono. Il prof. Teti è un amante della scrittura a mano, si è rimesso a leggere, nei mesi della pandemia, ciò che scriveva nel marzo del 2005, proprio nei giorni in cui si verificava il disastro di Cavallerizzo (precisamente la notte tra il 6 e il 7), ed ha rivissuto l’angoscia di quei giorni, quando, da studioso, si trovò ad osservare la fine di una frazione, e quindi la fine di un mondo sociale (anche se solo per 300 persone). Il reportage, anche fotografico, venne completato con il contributo di un team di bravissimi fotografi e studiosi di Etnologia (Luigi Celebre, Davide Scotta e Guerino Avolio). Parte di quel reportage fotografico, assieme ad alcuni scatti del compianto Salvatore Piermarini, sono riportati nel volume.
Marsi vjen e mír se vjen,
vjen i but e i tharëtith,
ture shtunur shí me diell.
[…] […]
Moj përthéll ndë zëmëra
ndë pëllese e nd’ ato shpí
kush e di çë shehiet, kush e di çë fati shkruon
bardh o zí mbi gjelljen?
Il memoir si apre con una poesia popolare e fatalista sul mese di marzo, e su come non sia saggio affidargli, per via della sua natura instabile, progetti e speranze per il futuro. La poesia è in arbëresh, il dialetto/lingua minoritaria parlato dalla maggior parte degli abitanti della piccola frazione di Kajverici (il comune è Cerzeto, in provincia di Cosenza). Leggendo le prime pagine mi sono venuti in mente due romanzi (diversi fra loro): La Peste di Albert Camus e Incendi di Richard Ford. Proprio come ne La Peste, un gruppo di cittadini si mette insieme per capire come fronteggiare l’imminente pericolo. Ma, se nel romanzo dello scrittore francese, la sciagura del morbo era anticipata dal ritrovamento di ratti morti, ne Il Risveglio del Drago, a preconizzare la frana e la distruzione della società del piccolo abitato, sono le tracce d’acqua che gli abitanti continuano a trovare nelle strade e le crepe che si allargano nei muri e nelle case. Ed i rumori naturalmente, perché le strade mentre cedono alla forza della frana mandano come delle urla. E gli abitanti, che già altre volta hanno vissuto situazioni analoghe, sanno come interpretare quei suoni. E proprio come nel romanzo di Richard Ford, gli abitanti del posto si danno da fare per scongiurare i danni (nel libro di Ford sono gli incendi a rappresentare la calamità e a dissolvere i legami sociali). La frana è il drago, gli abitanti la sentono muoversi sotto i loro piedi, nell’angoscia di quei giorni l’unico aiuto viene dalle preghiere rivolte a San Giorgio, patrono della frazione. San Giorgio è rappresentato, nella iconografia Cristiana, nell’atto di uccidere un drago (drago che esigeva pesanti tributi dagli abitanti della città di Silena, nell’attuale Libia). Il drago/frana, nella notte fra il 6 e il 7 marzo non verrà fermato da alcun miracolo. I fedeli rimprovereranno al Santo la sua assenza in un momento tragico. Il centro abitato sarà in parte reso inagibile, e i residenti dovranno lasciarlo entro breve tempo per permettere alla protezione civile la messa in sicurezza degli edifici e delle strade.
Dopo la frana nascono comitati spontanei di giovani, si assiste a contrapposizioni forti. Molti vorrebbero restare, non abbandonare il luogo squassato dalla frana; recuperare, per quel che si può, il vecchio centro della frazione e gli antichi modi di vivere. Altri abbracciano, ovviamente a malincuore, l’idea della delocalizzazione. Dapprima nella vicina Cerzeto, e in altri comuni limitrofi, in seguito nella New Town, che sorgerà sempre nel territorio di Cerzeto, ma su un terreno più stabile. Le stesse costruzioni che vedremo dopo i grandi sismi dell’Aquila e dell’Emilia Romagna.
Teti ed i suoi collaboratori, nei giorni seguenti, decidono di visitare il piccolo centro: scattano fotografie, raccolgono interviste, girano filmati mentre attorno a loro lo smarrimento degli abitanti è palpabile. Da quel momento in poi i cittadini di quel mondo diventeranno dei senza terra in scala ridotta, si sposteranno di pochi chilometri ma non riusciranno mai più a tornare nel luogo natio. Cavallerizzo dal 7 marzo del 2005 è di fatto inagibile, è diventato uno di quei Luna Park dell’abbandono, un posto da visitare in sicurezza per respirare l’angoscia ancora cristallizzata nelle case vuote e negli oggetti dimenticati, ché tanto non servono più a nessuno. Nessuno tornerà più ad abitare ai piedi di Rahji i Shën Lliut (il Colle di Sant’ Elia, dove sorgeva il vecchio centro).
Nella parte del libro più narrativa, è raccontato lo smarrimento attraverso i sogni tormentati degli abitanti, e dei lontani che avevano lasciato il paese con la speranza di tornare a passarci la vecchiaia. E con la nuova terribile certezza che ciò non avverrà mai. Nel frattempo, viene progettata e messa a disposizione degli abitanti una New Town, questa Nuova Cavallerizzo, che non incontrerà mai i favori degli sfollati, viene utilizzata, vista la presenza di abitazioni non assegnate o rifiutate, per un progetto S.A.I. (ex SPRAR) che porta nel nuovo abitato famiglie di richiedenti asilo provenienti da aree geografiche disparate, e questo è motivo di speranza: anche loro possono (ri)costruire una nuova socialità ed un nuovo modo di abitare. Ma anche questo non basta! La New Town, inaugurata nel 2011, non è pensata per la socialità: non ci sono circoli per gli anziani, impianti sportivi per i giovani e mancano i luoghi di culto. Non è un posto da abitare, è un quartiere dormitorio che non può replicare un luogo natio. Gli sfollati rimangono sradicati due volte, e tornano di tanto in tanto nel vecchio paese, ormai sopraffatto dalle erbacce e attraversato solo da cani randagi, volpi e cinghiali. Alla New Town si contrappone una Ghost Town, che comunque, per gli abitanti continua ad esercitare un fascino magnetico e primordiale. L’autore per introdurre gli ultimi capitoli del libro utilizza alcuni versi di My City of Ruins di Bruce Springsteen, canzone contenuta nel disco The Rising, che il rocker del New Jersey scrisse nel 2002, ancora frastornato e rabbioso per gli attentati dell’11 settembre dell’anno precedente. Lo smarrimento e la rabbia sono le stesse, nonostante le realtà siano differenti.
Nella chiusura vengono riportate le riflessioni di un altro bravissimo antropologo calabrese, Fulvio Librandi. Il testo che viene citato è la post-fazione al volume curato da Sabrina Licursi e Domenico Cersosimo Lento pede, Vivere nell’Italia estrema (Donzelli, 2023). Librandi spiega che la retorica dello spopolamento è diventata senso comune. Una retorica che disegna una nuova sfiducia nel futuro e deforma il quotidiano. Teti conclude il suo memoir, ritornando, dopo quasi vent’anni, nel vecchio centro di Cavallerizzo, accompagnato appunto da Fulvio Librandi. I due studiosi si fermano a guardare le case cominciate (e mai finite) da quanti volevano tornare, e quelle abbandonate da chi è dovuto partire in fretta e furia. Una chiusura dolorosa di un discorso aperto subito dopo la frana e ripreso nel periodo della pandemia. Uno iato di quasi vent’anni, necessario per raccogliere le tante impressioni di quei giorni e restituirle nelle pagine di un libro. Una lettura necessaria per non dimenticare, e per rendere giustizia ad una comunità intera. La voce del prof. Teti è, ancora una volta, la voce fortissima, ma pacata, di una regione che rischia di diventare una grande ghost town o una pittoresca – e forse bellissima – My City of Ruins.
Michele Trotta
Foto copertina Alfonso Bombini