Il sociologo Mario Coscarello, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università della Calabria, è uno dei vincitori quest’anno della prestigiosa borsa di ricerca europea Marie Skłodowska-Curie Individual Fellowships. Una notizia accolta con grande favore dal rettore Nicola Leone, poiché è la prima volta che l’ateneo calabrese è coinvolto così direttamente (nella foto, anche Maria Giovanna Durante, vincitrice di una Reintegration Fellowship). Visto l’alto numero di partecipanti e la competizione che ne deriva, solitamente si tratta di borse ad esclusivo appannaggio del ramo tecnico-scientifico, mentre per le Scienze Sociali è più difficile riuscire a vincere: questo la dice lunga sull’impresa che Mario ha compiuto con il suo progetto “Essentials”.
Intanto complimenti per questo risultato, sei tra i 1630 vincitori su ben 11573 candidati. Come hai fatto?
Il Bando delle Borse Marie Skłodowska-Curie Individual Fellowships si divide in due ambiti, un primo a livello europeo e un secondo a livello mondiale. Con il mio progetto “Experiences of Social and Solidarity Economy: Networks of Incubators as TerritoriAL development Strategies” (acronimo appunto “Essentials”) ho partecipato al secondo ambito, in particolare alla “Global Fellowship”, che prevede attività di ricerca per trentasei mesi. La borsa Marie Curie è molto attrattiva perché è basata sul merito e promuove realmente l’eccellenza, che garantisce ai ricercatori uno status di rilievo a livello europeo e internazionale. Infatti, sono emanate da tutte le università europeee, ma partecipano ricercatori da tutto il mondo e sono anche dei progetti particolarmente complessi. Quindi per me è stata davvero una grande soddisfazione essere fra i vincitori.
Abbiamo previsto che l’Università della Calabria sia capofila di questo progetto, ma sono stati coinvolti altri due atenei nel partenariato: il Politecnico di Torino, in particolare il gruppo Social Innovation Monitor, che è uno dei più importanti gruppi di ricerca europei che lavora sul tema degli incubatori e l’Università Nazionale di Quilmes in Argentina, che è una delle università coinvolte in progetti di Rete Universitaria di incubazione sociale, che loro definiscono “Incubatori di economia sociale e solidale”.
Dove ti porterà questa ricerca e quali sono gli obiettivi?
Il mio progetto consiste nel fare un confronto fra il mondo degli incubatori in Europa e quello in America Latina. Ho scelto due paesi, Argentina e Brasile, perché lì sono nate queste esperienze particolarmente interessanti di “estensione universitaria”, che sarebbe la nostra “terza missione”. L’idea è studiare anche l’aspetto normativo che favorisce o meno la costituzione di incubatori, i quali creano un percorso di guida e di supporto alla creazione di un’impresa e, ci auguriamo, di sempre più imprese a impatto sociale. Gli incubatori, inoltre, giocano un ruolo importantissimo per la creazione di imprese, di posti di lavoro, e ci sono tante ricerche che lo dimostrano, ma c’è un gap. La maggior parte delle imprese collocate negli incubatori sono prevalentemente tecnologiche: un recente studio condotto dal gruppo di ricerca Social Innovation Monitor in alcuni paesi europei (Italia, Francia, Germania, Spagna e Regno Unito), dimostra che in media sono solo poco meno del 20% gli incubatori che presentano imprese esclusivamente ad impatto sociale (però in alcuni paesi è più basso: 7% in Germania e 12% in Spagna), circa il 30% sono gli incubatori mixed, ovvero che presentano startup tecnologiche e a impatto sociale, mentre la stragrande maggiornaza degli incubatori sono business oriented, ovvero presentano imprese o comunque aziende che lavorano nella tecnologia, o nelle cosiddette scienze dure.
Ne deduco che in America Latina gli incubatori di imprese sociali sono una realtà a differenza che in Europa, è così?
Non esiste questo modello in Europa, infatti quello che è stato ritenuto particolarmente interessante dai valutatori europei è l’innovazione legata al processo per arrivare a conseguire un impatto sociale. Alcune esperienze che ho individuato in America Latina sono incubatori che agiscono a livello di territorio e non semplicemente di singole aziende. Quindi la differenza è che, nel caso della stragrande maggioranza delle esperienze europee, c’è una prevalenza di business incubator, dove si presenta un’idea e ci sono degli esperti che ti aiutano a renderla sostenibile economicamente e a far sì che alcune persone possano lavorare. Invece l’approccio che andrei a studiare è una innovazione di processo per sostenere imprese a impatto sociale, attraverso la metodologia della “ricerca-azione”: auspico di tornare fra due anni dall’America Latina e implementare nell’ultimo anno di ricerca quest’esperienza all’Università della Calabria, dove è presente già un incubatore che si chiama TechNest.
Per fare un esempio concreto: sul territorio calabrese c’è già una presenza viva e variegata di imprese sociali. Quale sarebbe il valore aggiunto di un incubatore universitario?
L’Università e la ricerca possono svolgere un ruolo decisivo. Gli incubatori giocano proprio questo ruolo, ovvero sostenere un’idea innovativa che crea lavoro e crea anche un benessere sociale, non solo con finalità economiche, ma per esempio con un’attenzione all’ambiente, all’inclusione sociale, ecc. Il mio progetto si colloca, peraltro, nell’ambito degli obiettivi che l’Unione europea si pone con la prossima Programmazione, ovvero il Pilastro dei Diritti Sociali con alcuni macro-obiettivi come quello di costruire un’economia più sociale e più vicina ai cittadini. Resta però fondamentale il ruolo dell’Università, che fa ricerca, formazione e che ha la possibilità di portare al di fuori del proprio territorio il know how, le conoscenze, le competenze. Ritengo fondamentale puntare alle competenze per poter costruire un processo che porti risultati, per fare un progetto vincente, per poter raggiungere gli obiettivi che l’Unione europea si pone.
Daniela Ielasi