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“La riforma Bernini allunga il precariato”, segnali di dissenso anche dall’Unical

Da qualche mese le università italiane, i sindacati e i movimenti manifestano la più profonda opposizione alla Riforma Bernini attraverso assemblee, scioperi e cortei; numerosi gli incontri, dall’Assemblea Nazionale del 25 ottobre (alla quale hanno aderito ADI e altre associazioni della sinistra universitaria) allo sciopero del 31, dalla giornata nazionale di iniziativa studentesca del 25 novembre al più recente sciopero generale del 29.
Il disegno di legge presentato dalla ministra dell’università e della ricerca Anna Maria Bernini, approvato dal Consiglio dei Ministri il 7 agosto, si propone di riformare il “pre-ruolo”, ossia «quel segmento che intercorre tra il completamento del percorso di formazione superiore e l’avvio dell’attività di ricerca individuale»– come si legge nel Comunicato Stampa del Consiglio dei Ministri n.91– introducendo tre nuove tipologie contrattuali: contratti post-doc, borse di assistenti all’attività di ricerca, contratti di professore aggiunto.

Anche all’Unical qualcosa si muove: lo scorso 12 novembre un gruppo di dottorande, dottorandi, assegniste e assegnisti del DISPES e del DICES si sono riuniti in un’assemblea per discutere assieme intorno alla Riforma Bernini. Ne è nata una mozione che sarà presentata domani 5 dicembre al Consiglio di Dipartimento di Scienze Politiche. La questione riguarda i precari della ricerca, quindi anche assegnisti, rtdA (ricercatori a tempo determinato A, oltre ai quali ci sono quelli B già in via di stabilizzazione) e docenti a contratto. Nella mozione si chiede al direttore di solidarizzare con la mobilitazione che c’è nel Paese e di invitare il rettore in sede CRUI a sottolineare la preoccupazione del mondo accademico. 

Per capire meglio le ragioni dell’opposizione al DDL abbiamo incontrato Simone Guglielmelli, dottorando in Scienza politica all’Unical e rappresentante degli iscritti al corso di dottorato in Politica, Cultura e Sviluppo.

Quali sono le maggiori criticità di questa riforma, perché opporsi?
Questa riforma allunga ulteriormente la precarietà, nel senso che già in Italia dalla fine del dottorato alla stabilizzazione, cioè a quando una persona diventa professore associato, passano moltissimi anni: c’è una media di oltre 10 anni in cui si cerca di galleggiare in questo mondo estremamente precario. Il 90% dei dottorandi che terminano il loro percorso triennale non riesce a rimanere nel mondo accademico e viene espulso, il 10% per cento che rimane appartiene a ceti medio-alti: solo chi proviene da famiglie che hanno risorse economiche tali da supportarne il percorso può permettersi il lusso di vivere 10 anni con contratti precari e sottopagati– nel nostro caso 1200 euro–. Bernini in commissione alla camera ha spiegato come la sua idea era quella di fornire un set di contratti che il professore ordinario può poi utilizzare per contrattualizzare i precari: ci sono 4 forme di precariato, ritorna la figura dell’assistente (che era stata superata, per fortuna, in questo paese). Anche dal punto di vista lessicale, e sostanziale, si fanno passi indietro: precari in posizione di subalternità rispetto ai docenti ordinari. 

Hai parlato di un “problema lessicale”, è evidente che ce ne siano ulteriori: nel DDL, ricercatrici e ricercatori sono definiti “giovani studiosi”, oltretutto studiosi di cui ci si ricorda solo qualche volta all’anno per menar vanto delle eccellenze e dei talenti italiani, ignorando che la ricerca è lavoro.
Ci sono stati alcuni miglioramenti: le dottorande hanno adesso accesso alla maternità, tutti abbiamo sulla nostra busta paga le trattenute fiscali ai fini pensionistici, per cui godiamo di maggiori tutele date dalle battaglie sindacali. Tuttavia c’è una certa infantilizzazione del dottorato, non siamo considerati come lavoratori e lavoratrici dell’università, ma solo come giovani in formazione: è vero che siamo giovani in formazione, ma siamo anche, a tutti gli effetti, lavoratori e lavoratrici. Consiglio di dare un’occhiata all’inchiesta di ADI sulle condizioni psicologiche dei dottorandi e delle dottorande in Italia: non è affatto un percorso semplice.
Spesso si guarda ai dottorandi come persone privilegiate che sono riuscite a entrare nel mondo accademico, cosa estremamente difficile, e sembra quasi che questo possa giustificare il permanere di condizioni non dignitose: “Stai nel mondo accademico, fattelo bastare”.
Addirittura in università continuano ad esserci i dottorati senza borsa (non è il caso dell’Unical).

Qual è la tua reazione e posizione rispetto alle parole della Ministra Bernini nel momento in cui smentisce l’ipotesi di tagli all’università?
Innanzitutto, occorre specificare che è una caratteristica dei governi di centro-destra, tecnici e di larghe intese quella di mettere a terra riforme rilevanti sull’università: pensiamo alla Gelmini, adesso alla Bernini. Era dunque abbastanza chiaro che ci sarebbe stato un intervento di questo tipo.
La ministra continua sulla scia dei suoi predecessori, in particolare di centro-destra: tagliare i fondi all’università, oltretutto in un contesto in cui si concedono tutta una serie di positive novità alle università private. La riforma Bernini arriva alla fine di decenni di costanti tagli al sistema universitario: dalla crisi del 2008 ad adesso, c’è stato un miglioramento solo con i fondi arrivati all’Unione europea post-covid. Da noi moltissime borse di dottorato, compresa la mia, sono finanziate con il PNRR, quindi hanno permesso all’università di spendere in altro i soldi prima destinati a pagare le borse di ricerca. Bisogna però aggiungere che dal 2026 termineranno gli incentivi del PNRR, che sono vari, da borse di dottorato a contratti di ricerca, e le borse di dottorato saranno finanziate dai bilanci di Ateneo.

Sei in contatto con colleghe e colleghi di altre università, specie del Nord Italia? Noti differenze tra te, in quanto dottorando in un’università del Sud, e loro?
Oltre alla generale riforma, noi viviamo ulteriori condizioni peggiorative date dal fatto che l’Unical non è una grande università, bensì rientra nella categoria delle università medie, ed è un’università del Centro-Sud. Sono in contatto con colleghe e colleghi degli stessi settori disciplinari, ci si vede ai convegni italiani, ai convegni all’estero, inoltre la mozione che presenteremo in dipartimento è un format di mozione che hanno presentato in altre università. La situazione di difficoltà è ovunque, secondo me quindi non c’è una grande distinzione tra Nord e Sud, in quanto la borsa è la stessa: la vita al Nord costa di più, d’altra parte noi al Sud non abbiamo servizi, trasporti, non c’è un sistema sanitario. È anche una questione di genere, di classe e di risorse. Su persone che provengono da famiglie meno abbienti e sulle donne le condizioni di lavoro a cui siamo sottoposti incidono maggiormente.

Ti ho chiesto un parere sulle posizioni della Ministra Bernini a proposito dei tagli all’università. Giacché siamo in tema, cosa pensi, invece, del Piano d’Azione Ricerca Sud? Lo ritieni efficace?
Non so quanto sia utile, mi sembra anche figlio di uno stereotipo. Forse in università la vera discriminante adesso è tra discipline, nel senso che le scienze dure hanno finanziamenti maggiori, mentre è chiaro che questa riforma in generale vada a colpire soprattutto le scienze umane, sociali e politiche che ricevono da sempre meno fondi; i dipartimenti sono in crisi, anche da noi se si dà un’occhiata al numero di iscrizioni e ai finanziamenti per dipartimento.
Non bisogna correre il rischio di pensare questa situazione come naturale, storica e immutabile.
Chi studia materie come le nostre è importante che continui a interrogarsi e non alienarsi. Chi trae il proprio studio, la propria ricerca dalla realtà è chiaro che può dare un contributo anche maggiore. L’università la fa chi ci sta dentro, chi ci lavora e chi ci studia.

Avete già in programma altri incontri? Come proseguirete?
Ci siamo riproposti di rivederci, provare ad allargare almeno la discussione e il dibattito, e presenteremo in consiglio di dipartimento questa mozione. La richiesta è che ci sia un percorso chiaro e definito, dalla fine del dottorato alla stabilizzazione: riteniamo sia incredibile vivere per anni in un limbo assolutamente indefinito fatto di 6 mesi di stop totale senza stipendi, poi magari un assegno di un anno, poi 6 mesi senza. Dietro a una stabilità economica c’è una stabilità di vita, che viene minata. E se poi pensiamo che si tratta di persone che hanno conseguito il massimo titolo di formazione presente in Italia e in Europa, cioè il dottorato, trattate nel peggiore dei modi, ciò restituisce anche l’idea di un paese in cui evidentemente le cose non vanno.

Anna Raspa

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